Rossosperanza.

Un ritratto onirico e sfuggente di quattro ragazzi vittime di una società ipocrita, decadente e malata.

di EMILIANO BAGLIO 28/08/2023 ARTE E SPETTACOLO
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Zena (Margherita Morellini) scratcha il suo vinile rosso intitolato 1990 (Lullaby dei Cure).

Il mondo sembra quasi obbedire al movimento delle sue mani.

Ora avanza veloce, ora scarta improvvisamente dando spesso vita a tragedie, ora si riavvolge su sé stesso come il nastro di una videocassetta.

Anche Rossosperanza, secondo lungometraggio di Annarita Zambrano, sembra seguire lo stesso movimento, andando liberamente avanti ed indietro nel tempo senza seguire necessariamente un ordine cronologico, perdendosi in rivoli laterali.

Forse è tutto un sogno, o meglio un trip; quello causato dalla pasticca che Zena prende insieme ai suoi amici prima di coronare il suo sogno di esibirsi come dj.

La ragazza, figlia del medico personale del Papa, è stata rinchiusa in una casa di cura insieme ad alcuni suoi coetanei, la sua colpa essersi vendicata di un prete dalle unghie lunghe mefistofeliche che intuiamo abbia avuto un passato pedofilo.

Nell’istituto c’è chi ha staccato a morsi il dito della propria matrigna e si è chiuso nel mutismo (Luca Varone), chi con la propria omosessualità rischia di compromettere l’immagine pubblica del padre esponente politico di spicco (Leonardo Giuliani); chi infine va a letto con tutti ed è pronta a qualsiasi cosa pur di compiacere un disgustoso produttore televisivo ed entrare in un programma che ricorda tanto Non è la Rai (Ludovica Rubino).

Sono tutti figli di buona famiglia, almeno così si direbbe.

Sono tutti ostaggio dell’ipocrisia di quella società che organizza feste in maschere prese in prestito dai film horror e tiene le tigri rinchiuse in gabbia per il proprio diletto.

La metafora è servita, anche questi ragazzi sono tigri rinchiusi in gabbie pronti a far esplodere la loro rabbia.

Anche chi è fuori da questo istituto, come il fratello di Zena (Elia Nuzzolo), un ragazzo balbuziente continuamente umiliato dal cugino che si crede un gran figo, è vittima dello stesso sistema.

Rossosperanza ci racconta le loro storie con un linguaggio spesso onirico, che mescola momenti da videoclip, suggestioni visive potenti e sequenze animate.

Una caccia alla tigre di notte tra la nebbia, una festa che si svolge tra cunicoli sotterranei, una grotta in mezzo al mare, il corpo di Leonardo Giuliani che balla sensuale al ritmo di Boys di Sabrina Salerno.

Annarita Zambrano ha ben chiari gli obiettivi da colpire, la ricca borghesia italiana parassita, bigotta, moralmente corrotta, apparentemente bigotta e ligia alle regole del cattolicesimo ma intimamente composta da porci schifosi pronti ad approfittarsi di tutti.

Il suo film, come detto, procede in maniera non lineare e non cronologica, ha la forma di un cerchio dai contorni confusi, allo spettatore il compito di ricomporre i pezzi.

Non tutto funziona, i limiti di budget come sempre si fanno sentire, eppure Rossosperanza proprio per la sua stessa natura ambigua, per il suo incedere onirico è uno di quei film che avrebbe meritato di più piuttosto che rimanere schiacciato in poche sale in questo fine estate dominato da ben altri titoli.

EMILIANO BAGLIO

 

 


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